Guerra e informazione: Italia malato grave
E’ stato pubblicato nei giorni scorsi il report Press Freedom Index, la classifica della libertà di stampa in tutti i paesi del mondo e l’Italia, già ultima nell’UE, passa dalla 41esima alla 58esima posizione, peggio di Romania e Gambia, tra le altre.
E’ un giudizio che non può sorprendere, soprattutto alla luce di quanto e’ accaduto dall’inizio della guerra in Ucraina.

L’informazione italiana, infatti, non si limita a raccontare questa guerra, ne è essa stessa parte; e’ parte dell’escalation verbale, che poi si riflette su quella militare, ma soprattutto è parte nella narrazione che distingue in buonissimi e cattivissimi, per cui un crimine è tale solo se commesso dai russi: così un tank russo che schiaccia una macchina con un civile a bordo è un crimine infame, fino a quando non si scopre che il tank non è russo ma ucraino ed a quel punto viene derubricato a “soldato ubriaco che sbanda”; così il razzo di Kramatorsk che fa strage di civili è un razzo russo – anche se quel tipo di razzi sono solo di utilizzo ucraino – perché non ci sono prove contrarie; così soldati ucraini che sparano a prigionieri russi , peraltro legati, non sono crimini di guerra perché , sempre per i media italiani, è comprensibile ogni loro forma di rivalsa sull’invasore.

In questo fuorviante schema, poi, si afferma la figura del giornalista miliziano, più che militante, secondo una (benevola, a mio avviso) definizione affibbiata da Giorgio Cremaschi a Vladislav Maistrouk, dopo che questi, in una delle sue numerose apparizioni in tv, aveva minacciato e giurato vendetta a un giornalista russo (peraltro senza che conduttore e redazione avessero nulla da eccepire).
Naturalmente non tutti arrivano a questi eccessi: Mentana, per esempio, insieme al suo ospite fisso esperto di faccende militari, si limita a spiegare a Pagliarulo – Presidente dell’ANPI – il senso della lotta partigiana, e a stabilire chi ne possa essere erede. Personaggi come Andrea Gilli (qualificato come “consulente” NATO) o Nathalie Tocci hanno la pretesa di apparire super partes, salvo poi rifiutare inviti in cui siano presenti anche voci “non allineate”.

Ci parlano continuamente della disorganizzazione dell’esercito russo, dell’obsolescenza dei suoi arsenali e dei mezzi in campo, dell’insubordinazione e della mancanza di rifornimenti. Ci raccontano con entusiasmo ogni singolo successo militare ucraino, come l’affondamento della Moskva o la ritirata da Kiev.
Un’opera costante di “abbellimento” della guerra, ma nulla, proprio nulla, ci dicono dello stato del negoziato di pace, di quali siano i punti in questione, di dove si sia arenata la trattativa.
Sono costanti i paragoni con l’informazione russa: Lo stesso Draghi ha rimarcato le differenze, in una conferenza stampa in cui difendeva perfino l’improvvido titolo di un quotidiano che inneggiava all’assassinio di Putin, salvo poi biasimare le reti Mediaset per aver dato voce al nemico Lavrov.
Un certo clamore ha poi suscitato il caso della giornalista russa apparsa durante un tg con un cartello “dissidente”: le previste purghe di Putin si sono risolte con una multa di pochi spiccioli, e in seguito si è saputo che la coraggiosa ribelle era passata a lavorare per la stampa tedesca.

Il caso più discusso, naturalmente, è quello di Navalny, l’oppositore di Putin condannato a nove anni: Poco si sa della truffa per la quale è stato condannato, ma in linea di massima i suoi nove anni di pena ci appaiono ben poca cosa rispetto ai 175 che rischia Assange, per aver raccontato al mondo crimini di guerra che non sono crimini per i media nostrani (e non solo per loro purtroppo) in quanto non commessi da russi. Di certo sappiamo che anche dal carcere Navalny continua a twittare e far sentire la propria voce, facoltà di solito negata ai reclusi italiani.
Tornando alla stampa di casa nostra, abbiamo poi Mieli che si spende per una colletta per la guerra; abbiamo visto Riotta scagliare il suo anatema perfino su Lucio Caracciolo, probabilmente la persona più preparata in Italia su temi di geopolitica.

Abbiamo visto De Angelis coniare la definizione di “pacifista terzomondista”, per qualificare dispregiativamente quelli che preferiscono la pace alla guerra santa. Huffington Post si è spinto oltre, con il termine “pacifondai”.
Abbiamo visto Cappellini attaccare con violenza gli organizzatori della marcia della pace per aver rispolverato il manifesto contro la guerra già usato per il conflitto in Kosovo (allora non c’erano i russi a bombardare, e il manifesto non era immondo). Abbiamo visto Rondolino – già noto per le sue campagne diffamatorie – compilare liste di proscrizione dei pacifisti “che hanno scelto gli assassini e gli stupratori”e soprattutto, Pierluigi Battista, autentico maitre a penser di questa nuova categoria professionale di giornalista miliziano: dopo aver coniato la definizione di “nazineneista” per tutti quelli che non si arruolano nel conflitto (e quindi sono, secondo lui, nazisti complici di Putin), Battista si è spinto a teorizzare sulla personalità dei filoputinisti, individuando in un eccesso di cultura – che spinge a dubitare, a porsi quesiti, a rendere complesse cose semplici – il germe che infetta l’animo del pacifista.
Troppa cultura nuoce, insomma, ed e’ questo il sistema in cui se qualcuno non si arruola e osa contrapporsi, come Luciano Canfora o come il professionista e galantuomo Marco Tarquinio, viene circondato e deriso.
Un recente sondaggio sulle cause che impediscono di raggiungere la pace indica che solo il 38% degli italiani vede Putin come primo responsabile. La maggioranza (42%) riconosce negli USA e nei loro interessi la causa principale, con l’Ucraina stessa (10%) e l’Europa (5%) più a margine. E’ una ricerca che fotografa lo scollamento tra mondo dell’informazione e opinione pubblica, ormai impermeabile alla macchina propagandistica di chi vuole raffigurare la guerra come unica soluzione.

In questi giorni va in onda lo spot televisivo del più importante quotidiano italiano, il cui slogan recita così: “E’ giusto sapere se la verità corrisponda al racconto. E si può capire solo se ci si può fidare di chi parla”: E’ un richiamo alla fiducia che non viene per caso, un ricorso alle riserve di credibilità che questa testata ha accumulato nella sua storia, ma più che fiducia, siamo alla richiesta di un atto di fede, per quanto visto e sentito in questi mesi.
Il debito di credibilità che l’informazione italiana ha contratto in queste settimane avrà pesanti ripercussioni nei tempi a venire e non sarà cosa semplice recuperare la fiducia dispersa.
Se l’informazione è il termometro della democrazia di un Paese, come ha giustamente ricordato il Presidente Mattarella nella Giornata Mondiale della libertà di stampa, l’Italia è un malato grave.
Diego De Mattia
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