Epurazione russa: lo sport si arruola piegandosi a logiche politiche
La Carta Olimpica Internazionale, nella sezione dedicata ai rapporti con i Comitati Olimpici Nazionali, fissa il principio di autonomia: i Comitati Nazionali “devono preservare la loro autonomia e resistere a tutte le pressioni, incluse quelle di ordine politico, giuridico, religioso o economico che possano impedire loro di rispettare la Carta Olimpica”.
Questo principio costituisce da sempre il fondamento dell’autonomia dello sport olimpico nei confronti dei singoli Stati, quale entità transnazionale composta da individui e associazioni di individui che prescinde dai singoli Stati ed agisce sulla base di regole dotate di specificità.
Peraltro, tra i ruoli assunti dal CIO, particolare importanza riveste quello di “cooperare con organizzazioni pubbliche o private e autorità per sviluppare lo sport per creare luoghi sportivi e promuovervi la pace”.

Questi principi, che avevano resistito anche nei periodi più bui della guerra fredda e dei numerosi conflitti del secondo dopoguerra, sono stati cancellati con un colpo di spugna in seguito alla guerra in Ucraina, provocando una vera e propria epurazione russofoba.
Nel calcio la nazionale russa è stata subito estromessa dai mondiali e le squadre di club cancellate da ogni competizione Uefa, Idem nel basket, con l’Eurolega che ha depennato le tre squadre russe, tra le quali la fortissima CSKA Mosca, vincitrice di otto edizioni, privata anche di importanti giocatori come Hackett e Shengelia, a cui la FIBA ha consentito di svincolarsi.

Poi è stato il turno della Formula 1, con la cancellazione del Gran Premio di Russia.
E poi il tennis, con la clamorosa epurazione del numero due del ranking ATP, Danil Medvedev, e del numero otto Andrey Rublev dal prestigioso torneo di Wimbledon: questi i casi più noti, ma dall’Atletica al Ciclismo, dalla Pallavolo all’Hockey, dal Rugby alla Pallamano, tutte le federazioni sportive hanno escluso dalle rispettive competizioni internazionali le squadre e gli atleti di Russia e Bielorussia con sanzioni che, come dicevamo, non hanno precedenti nella storia dello sport e del Movimento Olimpico.
Il caso paradigmatico, che spesso si ricorda in proposito, è quello dei Giochi Olimpici di Mosca: quelle Olimpiadi si disputarono nel 1980, in piena Guerra Fredda, pochi mesi dopo l’invasione dell’Afghanistan da parte delle truppe sovietiche e gli USA boicottarono l’evento, trascinando con sé molte nazioni, tra cui la Germania Ovest.

Altri paesi della NATO vi parteciparono, ma senza la bandiera: tra queste l’Italia, i cui atleti si presentarono a titolo individuale, sotto le insegne del CIO (con le memorabili imprese di Mennea, Simeoni e Damilano). La situazione si rovesciò quattro anni dopo, a Los Angeles 1984, con l’URSS e i paesi del Patto di Varsavia (a eccezione della Romania) che non parteciparono, in risposta al boicottaggio precedente.
Un altro caso di specie che si ricorda in proposito è quello della Coppa Davis del 1976: l’URSS raggiunse la semifinale, dove avrebbe dovuto affrontare il Cile del sanguinario regime di Pinochet.
Era una riedizione del confronto tra questi due paesi che aveva visto un precedente nel calcio, tre anni prima, in occasione dello spareggio per andare ai mondiali in Germania; già in quel caso i sovietici si erano rifiutati di scendere in campo nello Estadio Nacional di Santiago, dove fino a pochi giorni prima migliaia di dissidenti politici venivano deportati e sottoposti a ogni genere di tortura, prima di essere eliminati.
Anche nel tennis Breznev impose il niet e la squadra cilena ebbe il via libera alla finale di Davis, dove avrebbe incontrato l’Italia di Panatta e Barazzutti ai quali , ricordiamo, nessuno chiese di astenersi e infatti giocarono e vinsero nello stesso Estadio Nacional , esibendo come unico segno di protesta una maglietta rossa (che – per colmo d’ironia – è anche il colore della seleccion cilena).

L’ultimo caso che qui si vuol ricordare è quello dei Mondiali in Argentina del ’78: l’assegnazione da parte della FIFA era stata propiziata dal ritorno al potere di Peròn, che però era mancato un anno dopo, sostituito da Isabela, sua terza moglie, a sua volta rovesciata nel ‘76 dal golpe che aveva posto Videla a capo della giunta militare.
Il regime aveva deciso di sfruttare l’evento per offrire al mondo un’immagine di rinnovata efficienza e affidabilità del paese, investendo la cifra record di 520 milioni di dollari per i lavori di ammodernamento di stadi e infrastrutture, ma nonostante cio’ e nonostante la massiccia campagna mediatica a sostegno della kermesse, non si riusci’ ad impedire il diffondersi delle notizie sui crimini della giunta e sulle continue sparizioni degli oppositori e di ogni figura invisa alla dittatura.

Soprattutto l’azione delle Madres de Plaza de Mayo aveva portato all’attenzione del mondo la tragedia dei desaparecidos e, a dispetto delle ricostruzioni postume, nessuno dei partecipanti al Mondiale poteva dirsi all’oscuro del dramma che attraversava l’Argentina in quei giorni.
Diverse petizioni in Francia, Svezia e Olanda cercarono di promuovere il boicottaggio, ma alla fine nessun paese rinunciò a partecipare ai Mondiali della vergogna: le polemiche accompagnarono anche l’evento sportivo, e – tra partite sospettate di combine e arbitraggi compiacenti – l’Argentina vinse il suo primo titolo con Passarella che alzò la coppa davanti a Kissinger e Licio Gelli (entrambi avevano offerto i loro buoni uffici per il coronamento della festa) nello Estadio Monumental, a poche centinaia di metri dalla famigerata ESMA, la Scuola di Meccanica della Marina dove ogni giorno i desaparecidos venivano torturati, prima di essere avviati ai voli della morte.

Casi emblematici insomma, in cui lo sport non preservò del tutto la sua autonomia, in cui vi furono boicottaggi e rinunce, ma nessun partecipante fu mai estromesso dal CIO o dalle federazioni internazionali. Diversamente dai tempi attuali, in cui le stesse federazioni che hanno decretato il ban totale di atleti e squadre russe, consentono al Qatar di organizzare i prossimi mondiali di calcio, nonostante gli scandali che hanno accompagnato l’assegnazione e l’altissima mortalità nei cantieri degli stadi, o all’Arabia Saudita di organizzare una tappa del circus della F1, nonostante i pluriennali bombardamenti nello Yemen e la costante violazione dei diritti umani.
Diego De Mattia
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