Draghi, in difficolta’ in Italia, delude anche in politica estera

Sembrano lontani i tempi in cui si faceva gara per scrivere l’ aggiografia e tessere lodi al nostro Presidente del Consiglio: gia’ dopo la mancata elezione al Colle la sua parabola sembrava indirizzata alla fase discendente.

Al momento dell’invasione, poi, Draghi aveva un’occasione unica per assurgere al livello di statista internazionalmente riconosciuto e di scrollarsi di dosso quella nomea di burocrate e passacarte dell’elite europea, tenendo a freno i velleitarismi sovranisti e le pulsioni antieuropeiste di casa nostra.

Anche ai suoi critici poteva sembrare la chance per rilevare il testimone della Merkel, ridurre alla ragione Putin e prendere in mano le briglie dell’Unione.

E invece, l’ex Bce è rimasto a guardare. Non ci ha nemmeno provato. Molti dicono che non stia “toccando palla”, ma si ha l’ impressione, piuttosto , che si sia relegato in panchina, magari con l’intenzione di subentrare al novantesimo, sempre che Biden se ne ricordi.

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Voci di corridoio – per ora non confermate – lo indicano come possibile successore di Stoltenberg (che ha esaurito il suo mandato e si trova in regime di prorogatio determinato dalle urgenze della guerra) al vertice della NATO.

La guerra per Draghi è iniziata con l’imbarazzante sarcasmo di Zelenky, che gli rimproverava di non essersi fatto trovare disponibile a un colloquio telefonico.

Per i critici, fin troppo facile ironizzare sul fatto che di primo mattino, con il fuso orario sugli Stati Uniti, il Mario nazionale non avesse ancora potuto ricevere istruzioni in merito da Biden. Quell’incidente diplomatico, comunque, è stato presto superato, perché Draghi si è subito messo in prima linea nell’assolvimento delle politiche NATO di aiuto militare agli ucraini, e ha persino organizzato una delle tappe dello “Zelensky in Tour” più partecipate e acclamate presso il nostro parlamento.

Da quel momento, dato in crisi di fiducia nei sondaggi, il premier ha cercato di correggere il tiro con una “operazione simpatia” che gli potesse scrollare di dosso quell’aria di algido banchiere ingessato.

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La comunicazione, plasmata su modelli di autoreferenzialità più coerenti con le sue precedenti esperienze, è stata il suo tallone d’Achille sin dalle prime battute a Palazzo Chigi.

Abbiamo visto così Draghi spendersi nell’accorata difesa di un quotidiano che aveva titolato inneggiando all’assassinio di Putin, marcando le differenze proprio verso il regime russo (come se in un regime democratico ciò potesse essere consentito)

L’abbiamo visto nel più retorico dei “volete la pace o l’aria condizionata?”, che ha rilanciato un diluvio di sarcasmo e ironie che lo accompagnerà per molto tempo;

Abbiamo assistito alla conferenza stampa in quel dell’ Algeria in cui ,tronfio , sbandierava la sostituzione di parte delle importazioni di gas russo con quello algerino ed egiziano (negli stessi giorni in cui i giornali rimarcavano l’ennesima beffa del regime di Al-Sisi nella triste vicenda del povero Regeni).

Lo abbiamo sentito, infine, goffamente dichiarare, in riferimento alla questione del pagamento in rubli del gas russo, quindi su un terreno che dovrebbe essergli quanto mai congeniale: “Almeno io ho capito cosi’ “

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Peccato poi che l’ operazione anti rublo messa in campo dall’ occidente ha finito per rivelarsi un boomerang dato che la moneta russa ha finito per apprezzarsi a danno dell’ euro

Ma l’uscita che a mio avviso definisce la cifra di Draghi è quel “parlare con Putin è inutile”, che precede (e quindi giustifica) l’invio di nuove forniture militari all’Ucraina.

Questo approccio segna la fine di una parabola che vide l’acme nel memorabile “whatever it takes”, e riassume la maggior propensione di Draghi a salvare l’Euro a qualunque costo piuttosto che a usare la diplomazia per spegnere il conflitto.

Va detto peraltro che in nome di questa “guerra giusta” tutto il Parlamento ha trovato una compattezza e una convergenza di cui non si ricordano precedenti.

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Un timido tentativo di Conte di smarcarsi dalla linea di Governo sulla questione dell’aumento delle spese militari è rientrato dopo pochi giorni. Per il resto, i decreti per l’invio di armi agli ucraini sono stati votati dalla quasi totalità dei parlamentari, con poche eccezioni, tra cui Leu. Per una curiosa coincidenza, i due partiti che con più vigore propugnano il sostegno militare agli ucraini sono il PD e FdI: il più fedele sostenitore dell’azione di Governo e il suo massimo (quasi unico) oppositore.

Il partito di Letta sembra aver optato per una linea “omeopatica” nella lotta alle destre: battere Salvini e Meloni governando insieme, o riprendendone le politiche.

Il 60% degli italiani ha espresso contrarietà all’invio di armi all’Ucraina. In un paese già profondamente segnato da sentimenti di antipolitica, questa singolarissima convergenza dell’arco parlamentare sull’opzione militare segna un nuovo record della divaricazione tra classe politica e opinione pubblica.

Diego De Mattia

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