“Chi e’, cosa vuol essere il nuovo Pd”: riflessioni su una debacle annunciata
Come ampiamente previsto, il centrodestra vince le elezioni e si appresta ad assumere la guida del Paese. Stravince Fratelli d’Italia, che con il 26% supera le già lusinghiere previsioni della vigilia, stacca il PD di ben sette punti e, soprattutto, triplica i consensi delle due compagini di coalizione.
Il successo di Giorgia Meloni, che, a questo punto, si candida a diventare la prima donna a Palazzo Chigi, viene da lontano, ma neanche troppo. E’ il risultato di una strategia che, partendo dall’estrema destra, ha progressivamente guadagnato terreno avanzando verso il centro, sottraendolo principalmente (ma non solo) alla Lega.
Un’opera incessante sul territorio, con la capacità di parlare (e urlare) alla pancia della gente sui problemi quotidiani, senza mai rinnegare del tutto le radici, ma riservando i saluti romani ai consessi più intimi.
E’ il risultato di una politica partita dalle pulsioni di uscita dall’Euro, di indebitamento illimitato e di filoputinismo, che poi è mutata sulle odierne posizioni atlantiste, europeiste e di chiusura a nuovo debito, ma, soprattutto, è l’esito di quasi cinque anni passati all’opposizione: un lustro in cui praticamente tutti gli altri partiti si sono alternati nei vari governi, con mescolanze di colori improbabili e un caravanserraglio conclusivo – il Governo dei Migliori – che ha pregiudicato la credibilità di tutti i partecipanti.

Cinque anni di pandemia, di guerra, di recessione e crisi energetica in cui Meloni è rimasta alla finestra a guardare, e a dire cosa (non) andava fatto. Ha potuto condurre una campagna elettorale giocando di rimessa, senza eccessi nelle parole e nei toni, legittimata nelle proprie ambizioni perfino da Draghi.
Ora è il suo momento, potrà governare partendo da un largo consenso, e il primo ostacolo lo troverà dentro casa: Salvini, che esce drammaticamente ridimensionato da questa tornata e non sarà un compagno di viaggio facile da gestire.
Il PD è senza dubbio il principale sconfitto di queste elezioni con una debacle tattica, innanzi tutto: il campo largo, più volte immaginato da Letta, si è trasformato in un campo da calcetto, con giocatori lasciati fuori (M5S) e altri che si sono sfilati poco prima del calcio d’inizio (Calenda e Renzi).
Una campagna elettorale, quella del partito di Via del Nazzareno, combattuta soprattutto nella denigrazione degli avversari, agitando lo spauracchio del fascismo per FdI e dell’inaffidabilità per Conte.
Il PD, a questo punto, dovrebbe avviare una seria riflessione su se stesso. “Chi è, cosa vuol essere il nuovo Partito Democratico” ha detto Letta nella conferenza di commiato e forse avrebbe dovuto iniziare lui stesso questa riflessione, nel giorno del suo insediamento al Nazareno, ma meglio tardi che mai.
Il PD è stato al governo in nove degli ultimi dieci anni, ha governato insieme a Forza Italia, Lega, M5S, e chi più ne ha ne metta.

E’ il partito che ha prodotto, tra gli altri provvedimenti, Jobs Act, alternanza scuola-lavoro, accordi con la Libia, fino alla odierna postura di sostegno bellico incondizionato e appiattimento atlantista.
Rispetto al partito della Meloni, dunque, il PD ha seguito la traiettoria opposta: nato dalle ceneri dell’Ulivo e del PCI, si è collocato al centro dell’agone politico, dando per acquisite le posizioni alla sua sinistra che però si sono progressivamente sfilate, andando a ingrossare soprattutto le file di un enorme astensionismo.
Gioisce Conte, e con lui tutto il Movimento 5 Stelle: dati quasi per agonizzanti fino a pochi mesi fa, i grillini – a partire dalla caduta del Governo Draghi – sono stati in grado di ricostruirsi un’immagine in chiave “anti-sistema”, coniugata ai loro due provvedimenti iconici, di rilancio dell’economia (il “Superbonus 110%”) e di sostegno alle fasce più deboli (il Reddito di cittadinanza).
Riguardo a quest’ultima misura, da più parti si sono levate accuse di “voto di scambio”, non rilevate, viceversa, quando da destra è stata prospettata l’introduzione della flat tax.
In ogni caso, il confine tra populismo e popolarità è sempre assai labile e interpretabile, e Conte sembra saperlo maneggiare con una certa dimestichezza: in quattro anni di politica, infatti, l’avvocato del popolo si è messo in luce per una spiccata natura camaleontica, cambiando più volte amicizie e accompagnatori, mutandosi da uomo di governo a oppositore in trincea.
Male, come si diceva, la Lega: il ‘Capitano’ ha provato a riproporre il suo collaudato clichè, che nel recente passato l’aveva portato a superare il 30% dei consensi, ma stavolta non è riuscito a interpretare il copione del sovranismo identitario, un po’ perché la Meloni gli ha soffiato la parte, un po’ perché l’immigrazione non è più tra le principali preoccupazioni degli elettori.
Soprattutto, la partecipazione al Governo Draghi ha privato la Lega del suo ruolo di oppositore ai cosiddetti “poteri forti”.
Anche Calenda esce tra gli sconfitti, per sua stessa ammissione: ambiva a superare il 10% e a fermare la destra, deve rassegnarsi a una posizione quasi irrilevante, almeno nei numeri.
Non ce l’ha fatta Unione Popolare, rimasta lontana dalla soglia di sbarramento del 3%. Il tempo a disposizione di De Magistris è stato oggettivamente risicato, e neanche l’endorsement di Melenchon è stato sufficiente: il progetto di emularne l’esperienza francese fallisce, almeno per ora.
A pochi minuti dall’apertura dei seggi, dopo i primi trend-poll, la CNN titolava “Meloni premier più a destra dai tempi di Mussolini”.
Il 22 ottobre ricorre, tristemente, il centenario della famigerata Marcia su Roma e proprio in quei giorni si suppone che si comporrà il Governo a guida FdI.
Impossibile non pensare alla celebre frase di Karl Marx: “La Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”
Diego De Mattia
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