Prosegue l’invio di armi a Kiev da parte dell’Italia. Per quanto tempo ancora sara’ una scelta sostenibile?
Mentre il conflitto in Ucraina prosegue e sembra potersi estendere anche ai territori limitrofi della Transnistria ,controllati dalla Russia, in Italia ha ripreso vigore la polemica sulla decisione di invio di ulteriori forniture di armamenti pesanti a kiev.

Per la natura di questi aiuti, appare evidente che il passo successivo non potrà che essere l’invio di corpi armati del nostro esercito.
Risulta pleonastico qui sottolineare la palese violazione dell’Articolo 11 della nostra Costituzione (che a quanto pare è considerata la più bella del mondo solo nella misura in cui sia derogabile secondo le convenienza del momento) come pure argomentare sul chiarissimo e definitivo principio del ripudio della guerra: è di tutta evidenza, infatti, che il diritto alla difesa deve essere diritto alla difesa dell’integrità nazionale italiana, non certo di altri paesi; né che le limitazioni di sovranità – a cui l’Italia aderisce – possano costituire un lasciapassare alla violazione del dettato Costituzionale.

Resta peraltro, nel merito della questione, un grande punto interrogativo sull’utilità di questi aiuti militari.
Si dice: “Come si può negare il diritto di resistere degli ucraini?”. D’accordo, ma quando diciamo “ucraini”, a chi ci riferiamo esattamente? Ai milioni di profughi costretti a lasciare il proprio paese? Alle migliaia di storie spezzate dalla guerra? Ai civili intrappolati nei sotterranei dell’acciaieria Azovstal? Alle persone che non hanno più una casa né un lavoro e che già vivevano in un paese con un’economia da terzo mondo, ora precipitato in un baratro profondo da cui ci vorranno decenni per risollevarsi?
Ebbene se chiedessimo a ognuno di loro di scegliere, pensate che preferirebbero la difesa dei confini dell’Ucraina o la possibilità di tornare a vivere?

Chi sostiene politicamente la necessità di non cedere perché ,dandola vinta facilmente a Putin , verrebbe meno l’ordine mondiale, decide sulle vite di quei milioni di ucraini scegliendo per loro morte e tragedia piuttosto che venire a patti col nemico.
È di queste ore la dichiarazione di Austin che da Kiev, candidamente, ammette che il fine ultimo degli aiuti è indebolire il più possibile la Russia. Alcuni precisano che bisogna combattere per arrivare a trattare con maggior forza negoziale. Ammesso che ciò sia possibile (l’evidenza empirica della guerra sembra dire il contrario: dopo essersi riposizionato, l’esercito russo avanza conquistando territori e puntando perfino su Odessa) è moralmente accettabile il deliberato sacrificio di vite umane in cambio di quote di sovranità nazionale? E qual è il punto di equilibrio di questo immondo baratto?

Quanta guerra e quanta devastazione dovrebbe ancora sopportare il popolo ucraino perché si arrivi a un punto in cui la trattativa sia sostenibile? Quante vite “che non contano” – in una triste parafrasi del pensiero del grande Gino Strada – dobbiamo ancora sacrificare?
Peraltro questa è la contraddizione in cui cade chi vorrebbe promuovere la “guerra per arrivare alla pace”: da un lato si paventa il possibile ricorso alle armi nucleari da parte di Putin, dall’altro si alimenta una guerra per procura che – se avesse successo – troverebbe un epilogo probabile nella definitiva tragedia di un conflitto atomico.

Per chi scrive risulta un mero esercizio di retorica partecipare alla discussione sulle analogie tra resistenza ucraina e lotta partigiana.
Se, da un lato, sono riconoscibili i tratti comuni di resistenza all’invasore, dall’altro non si possono negare i caratteri propri e poco commendevoli della giovane democrazia ucraina, le consistenti quote di ultranazionalismo che già prima del 23 febbraio hanno caratterizzato l’azione di governo e la preponderante partecipazione di schiere di neonazisti tra le milizie ucraine: elementi che non hanno nulla di riconducibile alla lotta per la libertà dei nostri partigiani. Ma la differenza più marcata risiede a mio avviso nel carattere della resistenza partigiana, quale azione spontanea – in nessun caso coartata – di persone che si unirono in nome di un ideale, troppo diverso da quello di un esercito regolare di un paese sovrano, seppur coadiuvato da volontari.
Diego De Mattia
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